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Facoltà di : MEDICINA E CHIRURGIA

Medicina nucleare

Roma

Anno Accademico
2023/2024
Lingua
Italiano
Area Tematica
Sanitaria medica

Scuola accreditata

La Medicina Nucleare è una disciplina riconosciuta a livello europeo come specialità medica indipendente da più di 25 anni; ha un ruolo importante nella gestione clinica di un'ampia gamma di condizioni patologiche.

La disciplina si caratterizza per l’impiego dei radiofarmaci che, utilizzati inizialmente per studi di tipo fisiologico e fisiopatologico, hanno poi trovato dagli anni ‘70 in poi un ampio ruolo clinico sia a scopo diagnostico che terapeutico, senza mai perdere la iniziale connotazione di mezzi di grande utilità per la ricerca, sperimentale e clinica.

La scuola di specializzazione si presenta 

Perchè scegliere Medicina Nucleare?

Prof. Alessandro Giordano, docente della scuola di specializzazione in Medicina Nucleare

Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Roma

Nome file
Medicina nucleare 23-24.pdf
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154 KB
Formato
application/pdf
Piano degli studi
Progetto senza titolo - 1

Key facts

  • Durata: 4 anni
  • Area: 3 - Area Servizi Clinici
  • Classe: 8 - Classe della Diagnostica per immagini e Radioterapia
  • Tipo di accesso: concorso nazionale
  • Struttura di sede: Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS
  • Dipartimento: Scienze radiologiche ed ematologiche

Le peculiari caratteristiche dei radiofarmaci consentono di trattare alcune malattie con la stessa molecola usata per la diagnosi ma marcata con un radionuclide diverso: questa possibilità, recentemente denominata “teragnostica”, è nota in Medicina Nucleare sin dagli albori quando lo Iodio131 era impiegato tanto a scopo diagnostico che terapeutico in campo tiroideo.

La disciplina si evolve rapidamente anche grazie ai progressi di due ambiti affini: l’uno è quello della biologia molecolare , della radiochimica e radiofarmacia, che si occupano dello sviluppo di nuovi radiofarmaci che oggi si applicano soprattutto a scopi di “Imaging Molecolare” (termine divenuto quasi sinonimo di Medicina Nucleare), l’altro è quello dell’ingegneria elettronica, dell’ingegneria clinica e della fisica applicata, che si occupano dello sviluppo delle nuove apparecchiature diagnostiche, ambito oggi particolarmente interessato dell’entusiasmo dimostrato dai medici nucleari e dai clinici per l’ “Imaging Ibrido”.

Per gli aspetti culturali, scientifici, professionali e di formazione continua la Medicina Nucleare italiana fa riferimento, a livello europeo, alla Società Scientifica EANM (European Association of Nuclear Medicine and Molecular Imaging) e all’ IAEA (International Atomic Energy Agency), a livello nazionale all’AIMN (Associazione Italiana di Medicina Nucleare) che raccoglie oltre 700 specialisti del settore. Quest’ultima associazione ha svolto un censimento nel 2016 da cui risulta che vi sono in Italia oltre 250 centri (circa 1 centro ogni 250.000 abitanti); sono presenti circa 400 gammacamere e oltre 170 tomografi PET (1).

Vi sono due riviste scientifiche italiane: Il Quarterly Journal of Nuclear Medicine (Minerva Medica), nato come Minerva Nucleare, la più antica rivista di Medicina Nucleare a livello mondiale e il Clinical and Translational Imaging (Springer) di proprietà della stessa AIMN. La società scientifica europea EANM in collaborazione con la UEMS (Union Europeenne des Medecins Specialistes) hanno prodotto ed aggiornano periodicamente un curriculum formativo europeo per la formazione dello specialista in Medicina Nucleare (Nuclear Medicine Training in the European Union), noto il Syllabus Europeo, il cui ultimo update è del 2016 (2).

1)       https://www.aimn.it/documenti/notiziario/2017_2.pdf 

(2)       Eur J Nucl Med Mol Imaging (2016) 43:583–596

Il corso di specializzazione in Medicina Nucleare mira a formare uno specialista pronto ad assumere il ruolo di dirigente medico di una struttura ospedaliera o ospedaliero/universitaria di Medicina Nucleare sia in Italia che all’estero. Deve pertanto essere in grado non solo di eseguire o supervisionare tutte le attività assistenziali di competenza medico-nucleare tanto in ambito diagnostico (convenzionale, SPECT e PET), quanto in ambito terapeutico ma, in relazione alla tipicità di tante UOS o UOC di questa disciplina, formate da 2 o 3 professionisti, di assumersi immediatamente responsabilità direttoriali.

La Scuola forma lo specializzando anche a :

  • sovraintendere all’applicazione della normativa sanitaria e radioprotezionistica relativa ai reparti di medicina nucleare e alle sue periodiche revisioni
  • scrivere e revisionare protocolli operativi assistenziali e di ricerca clinica,
  • sovraintedere alla formazione e aggiornamento di altri colleghi e di studenti/specializzandi,
  • stabilire e rafforzare rapporti di lavoro comune assistenziale e di ricerca con le discipline affini:

1) in ambito di area specialistica (quali radiologia e radioterapia),

2) in ambito di area clinica (quali oncologia, cardiologia e neurologia),

3) con le altre discipline affini e che offrono competenze complementari, a volte anche a norma di legge, per l’esercizio della professione al più alto grado di qualità e sicurezza (quali fisica sanitaria, ingegneria clinica e farmacia ospedaliera), garantendo anche lo sviluppo professionale e culturale di tutte le equipe con cui collabora (medici e non medici).

  • possedere e dimostrare spiccate capacità e competenze interdisciplinari nei campi del management e della comunicazione interdisciplinare e intersettoriale, interfacciandosi in modo propositivo con i colleghi medici, con i fisici, con i chimici/farmacisti, con i tecnici, con gli infermieri e le altre figure professionali non mediche.
  • saper eseguire ed interpretare (desiderabilmente in collaborazione con gli specialisti del settore ma, in caso di impossibilità, anche in autonomia) alcune indagini diagnostiche “ibride” quali l’ecografia, la TC e la RM (apparecchiature che sempre di più vengono integrate strutturalmente con quelle più tradizionalmente mediconucleari) o complementari all’esercizio delle attività scintigrafiche, quali l’ECG da sforzo/farmacologico. 
  • essere in grado di gestire tutte le emergenze cliniche prevedibili a seguito di somministrazione di radiofarmaci e mezzi di contrasto o di test provocativi cardiologici.
  • conoscere e insegnare la radiobiologia e la radioprotezione (la disciplina richiede l’esercizio professionale in tutto o in parte all’interno delle “zone controllate”), al fine non solo di collaborare all’ottimizzazione della sicurezza nei reparti ma anche di fornire risposta a chiunque (dagli interlocutori istituzionali al singolo paziente) circa i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti con riferimento non solo alle singole indagini diagnostiche o ai trattamenti terapeutici ma anche agli incidenti nucleari che richiedono figure mediche con competenze cliniche, radiofarmaceutiche e fisiche.
  • saper condurre la ricerca clinica in lingua inglese sia come relatore che come moderatore/revisore (comunicazioni congressuali e lavori scientifici) e saper mantenere e promuovere l’aggiornamento con tutti i moderni mezzi della formazione continua in medicina.

L’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle radiazioni è veramente curioso. A partire dai primi anni del secolo scorso e per parecchi decenni l’opinione prevalente era che esse facessero bene alla salute: e così  -sembra ora incredibile- venivano tranquillamente venduti come “ricostituenti” sciroppi a base di Torio radioattivo, creme di bellezze contenenti Uranio, apparecchietti per immettere Radon nei sifoni del selz e pastiglie di Radium da appendere al soffitto per essere confortevolmente irradiati a letto o leggendo il giornale in soggiorno. D’altronde ricordo che mia madre prima della guerra dava a me bambino (“Bevi Guido che ti fa bene!”) un acqua minerale definita dall’etichetta “potentemente radioattiva”. Il proprietario di una Fonte che stampasse oggi quell’etichetta sarebbe sicuro di non vendere neppure una bottiglia.

Ma poi sono venute Hiroshima, Nagasaki, Chernobyl, i film di fantascienza con gli orrori prodotti dalle radiazioni atomiche e tutto è cambiato: oggi anche un solitario fotone X o gamma suscita terrore. Per un pacchetto trovato qualche anno fa in un cassonetto a Roma e contenente reagenti per radioimmunologia con tracce infinitesime di radioattività, il cronista di un importante quotidiano italiano concludeva così il suo pezzo: “Per fortuna il pacchetto era sigillato, altrimenti le potentissime radiazioni avrebbero avvelenato tutti gli abitanti dei palazzi circostanti.”! E’ un atteggiamento incomprensibile, questo del pubblico, soprattutto se si considera che, essendo le radiazioni elettromagnetiche uno spettro continuo, vengono temute non solo quelle a breve lunghezza d’onda (raggi X e gamma, appunto), ma anche quelle a lunghezza d’onda elevata come le radiofrequenze (i micidiali trasmettitori della radio Vaticana!); accolte invece con piacere quelle della luce, che stanno in mezzo, con una estensione di simpatia ai raggi ultravioletti: chi non corre al mare a farsi una bella abbronzatura?

Ma quale è la verità sul danno da radiazioni? Preciso che qui parlerò di quelle che si impiegano in Medicina (raggi X in radiodiagnostica; raggi gamma ed elettroni in Medicina Nucleare) che rappresentano per un italiano l’unica occasione pratica di essere esposto: le centrali nucleari sono chiuse e si spera non vi saranno guerre atomiche od attentati nucleari.

Per comprendere quel che segue, bisogna introdurre il concetto di “dose”. Le radiazioni agiscono per l’energia che depongono nei tessuti (che dà luogo a fenomeni di ionizzazione, con lesioni di strutture biologiche) e vengono misurate in rapporto alla quantità di energia deposta. L’unità di misura è il Gray (Gy) che corrisponde alla cessione di energia di un Joule per chilogrammo. E’una unità molto grande, perché per solito siamo esposti a dosi che si misurano in millesimi di Gray (mGy): un esame radiografico dà, in media, circa 1 mGy (la TAC anche 6-8 mGy), un esame medico nucleare, in media, 4-5 mGy; tutti poi, nel mondo, riceviamo una media di 2,4 mGy all’anno da radiazioni naturali (raggi cosmici, radioisotopi nel terreno e negli alimenti, Radon negli edifici, ecc.).

E’ sicuramente accertato, sopratutto per merito (!) delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki, che a dosi elevate le radiazioni sono dannose. I danni sono di due tipi: quelli “deterministici” sono dovuti all’uccisione delle cellule, soprattutto di tessuti radiosensibili come il midollo emopoietico (con caduta degli elementi figurati nel sangue, specie dei linfociti): dosi di 3-5 Gy possono portare a morte la persona per distruzione del midollo; con dosi superiori la morte avviene anche per lesioni dell’epitelio intestinale (diarrea, infezioni) o del SNC (convulsioni, coma). Così è avvenuto, purtroppo, per una trentina di persone lavoranti a Chernobyl od accorse in soccorso al momento della sciagura. I danni deterministici si verificano, tuttavia, solo da una certa dose in su: vi è, cioè, una “soglia di dose”. Le prime alterazioni della serie ematica si osservano, ad esempio, solo a partire da circa 0,5 Gy; per dosi inferiori a 0,15 Gy (150 mGy) non è mai stato osservato danno neppure per i tessuti più radiosensibili (fra i quali, oltre al midollo emopoietico, vanno citati anche i tessuti dell’embrione e del feto, gli spermatogoni, il cristallino).

Sempre a dosi elevate, è stato sicuramente accertato anche un altro tipo di danno, quello “stocastico” (significa: “casuale”) dovuto ad alterazioni del DNA prodotte dalle radiazioni (mutazioni; aberrazioni cromosomiche, ecc.) con la conseguenza di patologie ereditarie, se avvengono nelle cellule germinali, e di cancri radioindotti, se nel DNA delle  cellule somatiche.

Orbene, il problema cruciale nella pratica è il seguente. Sia se si è esposti per ragioni professionali (radiologi, addetti alla gammagrafia nei cantieri, ecc.), sia se si è esposti per ragioni mediche solitamente non si ricevono (tranne che nel caso della radioterapia) dosi superiori  a 30-50 mGy. Quindi effetti deterministici non ve ne sono; ma vi possono essere, o no, danni stocastici per queste “piccole dosi”?  (vengono definite tali quelle inferiori a 0,2 Gy, 200 mGy).

Vi sono, in proposito, tre dottrine.

1)      La dottrina più diffusa ed “ufficiale” è quella sostenuta dall’autorevole International Commission on Radiological Protection (ICRP), che ispira la legislazione protezionistica di tutto il mondo. Una “soglia” non esiste: anche un solo evento (per esempio un fotone od una particella che determini una rottura di entrambi i filamenti che formano l’elica del DNA) può essere sufficiente a dare inizio ad un tumore maligno o ad una alterazione genetica ereditaria. Inoltre in una popolazione irradiata la frequenza degli effetti (che si trasforma in “probabilità” per il singolo individuo) è linearmente correlata con la dose: se su 100 individui che ricevono 1 Gy i cancri radioindotti (durante tutta la loro vita) sono 10, saranno 5 per 0,5 Gy e 2 per 0,2 Gy. Questa dottrina, detta LNT (Linear No-threshold Theory) ha però una attenuazione per le “piccole dosi”: infatti l’ICRP ammette che esse abbiano un effetto biologico minore di quel che ci si può attendere ed introduce un “fattore di riduzione” (DREF) di 2: onde una dose di 0,2 Gy (200 mGy) in quelle 100 persone non provocherà due tumori maligni, ma uno soltanto.

L’ICRP non sostiene affatto che la LNT sia indubitabilmente vera: dice che è precauzionalmente utile, a scopo protezionistico, ritenerla tale. Ma è stata assunta come Vangelo da tanti; e il concetto di “effetto cumulato di dose collettiva”, che ne è la derivazione, è quello che ha suscitato più allarme nei mass media. Proseguiamo con l’esempio, scendendo con le dosi e ricordando che, in base alla LNT, non vi è una soglia. Se 200 mGy provocano, in base al DREF, 1 tumore fatale su 100 persone, 20 mGy ne provocheranno uno in 1000 persone ed 1 mGy darà origine ad un tumore maligno se verrà ricevuto da 20000 persone. Anche un decimo di mGy (dose infinitesima, ventiquattro volte inferiore a quella che in media ciascuno di noi riceve dalle radiazioni ambientali) potrà provocare un tumore maligno se somministrato a 200000 persone; quindi 10 tumori maligni su 2 milioni di persone, 100 su 20 milioni, 1000 su 200 milioni. Con calcoli come questi sono state profetizzate decine di migliaia di tumori maligni in tutto il mondo a seguito delle ricadute radioattive di Chernobyl: che però, a quasi 20 anni di distanza, nessuno ha visto. Gli unici tumori collegabili a Chernobyl sono alcune centinaia di carcinomi papilliferi tiroidei in bambini della Bielorussia, che avevano ricevuto grosse dosi tiroidee da isotopi del radioiodio. Il concetto di “dose collettiva” è stato applicato, purtroppo, anche alle esposizioni mediche. Proprio quest’anno Berrington e Darby, moltiplicando le piccolissime dosi dovute ad esami radiologici per i milioni di pazienti esaminati, hanno pubblicato che l’esercizio della radiologia provoca ogni anno 7587 cancri fatali in Giappone, 5695 negli USA, 2049 in Germania, 700 in Inghilterra e così via per 14 Paesi, fra i quali non figura l’Italia (forse antipatica agli autori). Con la conseguenza che un periodico tedesco, del quale non è difficile intravedere l’orientamento politico, ha scritto che i radiologi sanno benissimo di uccidere i loro pazienti, ma sono costretti a farlo per sostenere il mercato delle multinazionali produttrici di apparecchiature radiologiche!

2)      Una dottrina che ha meno sostenitori (ma alcuni molto autorevoli, come l’Académie des Sciences de France) sostiene che gli effetti stocastici sono sì proporzionali alla dose, ma che quando si giunge a piccole dosi una “soglia”, o per lo meno una “soglia pratica” vi sia.  Viene sottolineato che la cellula dispone di efficientissimi sistemi di riparazione (per lo più enzimatica) del DNA, che quotidianamente fronteggiano miriadi di lesioni prodotte dal metabolismo ossidativo e da genotossici ambientali: par strano che essi non possono dominare le poche lesioni aggiuntive dovute ad una piccola dose di radiazioni, mentre è comprensibile che i meccanismi riparativi possano venir sopraffatti da una grossa dose. Anche la rottura di entrambi i filamenti del DNA, particolarmente temuta nel caso delle radiazioni, può venir riparata, seppure con qualche difficoltà. Ancor più importante è la considerazione che lo sviluppo del tumore è un processo a più stadi: alla “iniziazione” segue la “promozione”, la “conversione” e la “progressione”. In ognuno di questi stadi l’organismo sa difendersi, con vari meccanismi: arresto mitotico, apoptosi (suicidio programmato cellulare), differenziazione, reazioni immunitarie. Anche se una o poche cellule venissero iniziate, perché vi è stato un difetto nella riparazione del DNA, come è possibile che nelle fasi successive esse sfuggano a questi meccanismi protettivi?

Questa dottrina, non priva di buon senso, riceve un sostegno indiretto dalle osservazioni su decine di migliaia di lavoratori esposti (soprattutto nei paesi ove è più attiva l’industria nucleare) a piccole dosi di radiazioni e che finora non hanno fornito un evidenza di carcinogenesi radioindotta.

3)      Una dottrina di cui si parla sottovoce, perché non è “politicamente corretta” , ma che ha sostenitori fanatici, anche fra scienziati di vaglia, è l’Ormesi. L’Ormesi ritiene che piccole dosi di radiazione non solo possano essere innocue, ma addirittura avere effetti favorevoli. Le piccole dosi evocherebbero una “risposta adattativa” che rende l’organismo capace di meglio resistere non soltanto a dosi alte ricevute in seguito, ma anche di opporsi a molti altri agenti lesivi e genotossici e perfino all’invecchiamento. La dottrina si avvale: di considerazioni generali (quasi tutto ciò che è tossico in natura lo è ad alta dose, mentre è innocuo o benefico a dose piccola; la risposta adattativa è molto efficace perché la vita l’ha sviluppata nel corso di una evoluzione filogenetica che per la maggior parte si è svolta quando il fondo naturale di radiazioni era più elevato dell’attuale, ecc.), di osservazioni epidemiologiche ed anche di dati sperimentali, che tendono a comprovare la risposta adattativa. La miglior evidenza sperimentale proviene dagli studi sui linfociti umani (ma anche da studi su altri sistemi biologici). I linfociti irradiati in modo cronico da piccole dosi di tritio immesse nelle culture (con conseguente incorporazione di timidina tritiata) mostrano, se esposti a dosi di 1.5 Gy di radiazioni, soltanto la metà circa delle aberrazioni cromosomiche riscontrate nei controlli. Lo stesso avviene se i linfociti sono previamente irradiati con piccole dosi di raggi X (10 mGy). Recentemente si è visto che anche linfociti prelevati da soggetti sottoposti a terapia per ipertiroidismo con 131I resistono meglio all’irradiazione con 0,5 e 1 Gy di  raggi gamma di quel che non facciano linfociti presi da soggetti normali.

Ma, forse perché minoranza sottoposta a persecuzione, vi è sovente dell’eccesso, che può infastidire, negli scritti degli ormetici. Uno di loro ha affermato che i meccanismi adattativi si sono ai primordi sviluppati quando il fondo di radiazioni ambientali era assai più elevato e che rischiano di affievolirsi oggi essendo noi “in debito” rispetto ad allora di circa 4 mGy mensili. Onde l’opportunità di effettuare una scintigrafia scheletrica al mese, senza indicazione medica, ma solo per “fare il pieno” di radiazioni! Francamente, mi pare troppo.

Concludendo,  torniamo alla domanda di Pilato “Quid est veritas?”. Probabilmente l’apprenderemo, per le piccole dosi, solo dai progressi della radiobiologia: vi sono infatti grosse difficoltà statistiche ad accertare in modo significativo, con l’osservazione epidemiologica diretta, un piccolo eccesso di tumori radioindotti rispetto alla gran massa dei tumori spontanei che in nulla da quelli si distinguono. Se però la biologia molecolare riuscisse ad offrirci un marker specifico della radioinduzione, il discorso si farebbe completamente diverso. Ma anche i progressi della genetica sono importanti. Già si è visto che alcuni geni mutati (ATM, BRCA1, BRCA2, ecc) predispongono non solo a tumori spontanei, ma anche a quelli radioindotti perché risultano compromessi i sistemi di riparazione del DNA; e si comincia a pensare che gli effetti stocastici non siano casuali, ma che possano riguardare, per dosi non elevate, solo individui geneticamente predisposti, anche in modo multifattoriale da parte di molteplici geni a scarsa penetranza. Se si riuscisse ad identificare, attraverso test genetici, chi è predisposto e chi no, la cosa sarebbe, ovviamente, di estrema importanza pratica.

Nel frattempo io penso che per quanto riguarda le esposizioni di diagnostica medica si possa stare tranquilli. Il che non sempre avviene: conosco bene una mamma che non voleva effettuare una radiografia del torace alla figlioletta febbricitante e tossicolosa perché “I raggi fanno male”, trovando poi naturalissimo che essa  stesse incollata a pochi centimetri dal televisore ad assorbire per ore i raggi X provenienti dal tubo a raggi catodici.

 Già si sa che il pur cautissimo ICRP nelle Raccomandazioni prossime venture ridurrà moltissimo il coefficiente di rischio per gli effetti genetici ereditari (che non sono mai stati osservati nell’uomo, neppure nelle prime generazioni dei sopravvissuti a Hiroshima e Nagasaki) ed anche, in misura minore, quello per la carcinogenesi radioindotta. Inoltre come abbiamo visto, vi sono buone ragioni per pensare che piccole dosi di radiazioni (raggi X, gamma od elettroni: perché per particelle alfa, neutroni e protoni il discorso sarebbe diverso) possano non causare danno, o, se vogliamo essere arditi, avere anche effetto benefico. Ed infine: se nonostante l’acqua radioattiva di mia madre ed il mio passato di radiologo e di medico nucleare sono giunto a 78 anni in ottima salute, un motivo ci dovrà pur essere! .   

G.Galli

Direttore emerito Istituto di medicina Nucleare Università Cattolica del Sacro Cuore- Roma

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