Di Luca Gino Castellin (Professore Associato di Storia delle Dottrine Politiche, Università Cattolica - Milano)
It’s the devil’s way now
There is no way out
You can scream and you can shout
It is too late now
Radiohead, 2+2=5
(Hail to the Thief, 2003)
1. Due più due uguale cinque
Il 9 giugno 2003, i Radiohead pubblicano il loro sesto album, Hail to the Thief. A differenza dei precedenti Kid-A (2000) ed Amnesiac (2001), non è un disco di sperimentazione, dove ritmi elettronici programmati al computer e diversi strumenti jazz prendono il posto delle chitarre elettriche. È, invece, un ritorno alle origini, alle sonorità di The Bends (1995) e Ok Computer (1997), che avevano offerto visibilità alla band di Thom Yorke e Jonny Greenwood. I singoli che vengono estratti dall’album sono gli onirici e perturbanti There There e Go to Sleep, ma soprattutto il distopico 2+2=5, che apre anche il disco. Già nel titolo della canzone è facile intuire il debito e il richiamo a 1984 di George Orwell, ossia alla distopia più celebre del Novecento.
Nel linguaggio comune, la distopia è intesa come un’inversione dell’utopia, una sua totale negazione. Pertanto, se l’utopia descrive i contorni di una società ideale, superiore e più giusta, la distopia delinea i tratti di una società spaventosa, inferiore e più ingiusta. Tuttavia, piuttosto che essere una negazione dell’utopia, la distopia potrebbe essere la sua essenza. Ogni distopia, infatti, è un grido d’allarme contro lo status quo, è una denuncia morale nei confronti di una realtà avvertita come oppressiva e disumana. Per evitare che il passato e il presente siano destinati a trasformarsi in un incubo futuro, la narrativa distopica agisce in maniera preventiva, mettendo in guardia i lettori.
2. Le radici del genere distopico: politica, scienza e tecnica
Secondo l’Oxford English Dictionary, la paternità del termine distopia – dal greco dys- (cattivo) e topos (luogo) – è riconducibile al filosofo John Stuart Mill, che lo utilizza per la prima volta durante un discorso al Parlamento inglese nel 1868. Questa data è molto importante, perché offre un riferimento storico fondamentale per inquadrare il sorgere del genere distopico. Se, infatti, la distopia riflette come una cartina di tornasole paure e angosce tipiche di un’epoca, è soltanto nel XIX secolo che tali preoccupazioni incominciano a manifestarsi.
L’atto di nascita della protostoria della narrativa distopica si può ritrovare nello spartiacque della Rivoluzione francese. L’ideale palingenetico del furore rivoluzionario, l’aspirazione a creare l’«uomo nuovo» e di fondare una società perfetta, non soltanto mostrano abbastanza in fretta le loro terribili conseguenze politiche e sociali, ma contribuiscono anche a plasmare l’incubo (futuro) che alimenta l’immaginario distopico.
Accanto alla – e, forse, assai più della – politica, sono la scienza e la tecnica con le loro sinistre ricadute sociali, culturali ed economiche, a innescare la distopia moderna. L’obiettivo polemico è la hybris dell’uomo moderno, il peccato di tracotanza e vanagloria contro i limiti naturali e morali dell’esistenza e della realtà. Nel 1818, con la pubblicazione di Frankenstein, o il moderno Prometeo, Mary Shelley non solo inaugura la tradizione fantascientifica, ma agisce da catalizzatrice del canone distopico. L’autrice affronta nella sua opera più celebre i pericoli che ossessionano la distopia novecentesca. Il tema della hybris, come indica il significativo sottotitolo (appunto, il «moderno Prometeo»), è centrale, proprio perché vi è l’idea che la scienza e la tecnica siano destinate a cambiare (in peggio) le condizioni di vita e di lavoro dell’uomo, oltre che a minare profondamente la stessa natura umana.
Nella seconda metà del XIX secolo, insieme all’avanzata dello spettro del comunismo, si moltiplicano i segnali di allarme verso la scienza e verso la politica. Si diffonde sempre più la convinzione che il paradiso utopico potrebbe infatti dissimulare un inferno distopico.
3. L’epoca della distopia totalitaria: Wells, Zamjatin, Huxley e Orwell
Se c’è un punto sul quale gli studiosi sembrano essersi trovati tutti d’accordo, è nel riconoscere in Herbert George Wells il vero caposcuola della distopia moderna. Nel torno di tempo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’autore inglese pubblica infatti una serie di racconti che costituiscono un vero e proprio ciclo distopico, edificato sull’atmosfera fin de siècle dell’età vittoriana, che prende inizio con The Time Machine (1895) e si conclude con The Shape of Things to Come (1933).
La visione del futuro proposta da Wells è assai cupa e drammatica. Il pessimismo dell’autore si intreccia tanto con le istanze di trasformazione dell’ordine sociale legate alle rivendicazioni del proletariato (verso cui Wells mostra un atteggiamento ambiguo e contraddittorio), quanto con l’evoluzionismo della teoria darwiniana. In The Time Machine, per esempio, la lotta di classe è estremizzata in una contrapposizione tra esseri ripugnanti. I brutali Morlocks, discendenti dei proletari che abitano nel sottosuolo, servono per abitudine i deboli e parassitari Eloi, eredi dei capitalisti, ma al tempo stesso danno loro la caccia di notte per nutrirsene. L’immagine finale di un mondo popolato soltanto da granchi giganteschi che vive sotto i raggi di un sole che sta ormai per spegnersi è alquanto evocativa del macabro orizzonte di Wells. Invece, The Shape of Things to Come, invece, traccia il futuro dell’umanità attraverso l’esperienza di due guerre mondiali (di fatto Wells prevede lo scoppio del secondo conflitto mondiale), l’avanzata delle pandemie, l’instaurazione di una dittatura ‘benevola’ che conduce al trionfo della scienza e della tecnologia.
Le speranze e le paure di Wells vengono ulteriormente sviluppate nel corso del XX secolo. L’inizio del Novecento, d’altronde, è l’epoca delle distopie. E gli alfieri dell’ascesa della distopia sono certamente Evgenij Zamjatin, Aldous Huxley e George Orwell.
Tra il 1919 e il 1921, l’intellettuale russo Zamjatin scrive un romanzo – pubblicato per la prima volta in inglese nel 1924, in russo soltanto nel 1988 – che possiede una incredibile valenza storica, dal titolo Noi. Egli critica infatti l’assoggettamento sistematico dell’individuo alla società. L’obiettivo polemico è duplice. Da un lato, la società capitalistica e il taylorismo, che fabbrica uomini tutti uguali, inconsapevoli e alienati, dall’altro, il potere totalitario del comunismo sovietico (sperimentato personalmente dall’autore), che in nome dell’uguaglianza nega la libertà della persona.
L’omogeneità della massa informe dei cittadini è perseguita attraverso il condizionamento, il controllo continuo (le abitazioni, per esempio, sono quasi tutte in vetro), e la chirurgia (la trasgressione non è solo un reato, ma anche una malattia sociale, che viene ‘curata’ attraverso il ricorso alla lobotomia). Nel romanzo, le vicende del protagonista, D-503, raccontate sotto forma di diario, contengono una critica feroce all’idea che la felicità possa essere raggiunta e garantita attraverso la rinuncia alla libertà e l’assoggettamento al potere.
Seppur fondato sull’esperienza del piacere e sull’organizzazione scientifica della società, anche Brave New World (1932) di Aldous Huxley diffonde l’immagine di un futuro terrificante. Sorto dopo una guerra apocalittica, lo Stato mondiale si struttura politicamente ed economicamente in maniera classista, promiscua e fortemente edonistica. Quella di Huxley è una critica spietata al Fordismo, al consumismo e al capitalistismo della società borghese del XX secolo. Il condizionamento eugenetico e psicologico (tramite l’ipnopedia) sostituisce la sorveglianza costante e repressiva che si serve della minaccia o della paura. La (possibile) deviazione del singolo dalla massa è così facilmente individuabile e arginabile. La scienza in Brave New World diventa strumento di governo.
Il totalitarismo ‘morbido’ di Huxley è comunque aggressivo e spietato. Si serve dell’ingegneria genetica e delle tecniche psicologiche per asservire corpo e mente alle necessità del potere. L’obbligo del piacere, e con esso il dominio politico, si sostiene sia attraverso la sessualità ‘meccanica’ e ‘senza sentimento’ (amore, famiglia e matrimonio sono semplicemente inconcepibili), sia tramite la droga (l’alterazione della condizione psico-fisica con il soma è uno strumento di restrizione individuale e di ordine collettivo).
Molto probabilmente, 1984 (1949) di George Orwell è la distopia più famosa del XX secolo. Attraverso il romanzo dello scrittore inglese il lettore è gettato in un incubo vivido e atroce, popolato dal potere, dalla propaganda, dal terrore e dalla guerra. Nel mondo frazionato in blocchi, in una società suddivisa per classi, il controllo sulla popolazione di Oceania da parte del Grande Fratello è totale e continuo. Il nemico interno e internazionale è l’oggetto della propaganda, così come la repressione, il terrore e la rieducazione sono gli strumenti del potere.
Offrendo una grottesca estremizzazione dei totalitarismi del Novecento, 1984 mostra le insidie dell’uso dei mass media, della distorsione del linguaggio e della alterazione della cultura. Il futuro descritto di Orwell è semplicemente un inferno. Non c’è scampo dalla vigilanza e dalla propaganda. Aspetto determinante è quello dell’utilizzo dissacrante del linguaggio, in cui più si avverte il distacco tra l’essere umano e la sua realtà storica e sociale. Anche il passato è una vittima del potere totalitario. La distorsione, che è al tempo stesso costruzione, della storia è uno strumento della politica. Le persone sono intrappolate in un eterno presente, di cui non hanno nemmeno certezza. La memoria, unica ancora di salvezza, è perduta. Il dissenso annientato, tramite la catarsi dei “due minuti d’odio”. Come lascia presagire Orwell, la speranza per un avvenire differente semplicemente non esiste. Non c’è opposizione, il dissenso viene creato, la delazione è pratica quotidiana, l’essere umano è una marionetta nelle mani del potere. L’uomo non è più umano.
4. Una tipologia del canone distopico: politica, ambiente, tecnologia
Il raccapricciante futuro che propongono Wells, Zamjatin, Huxley e Orwell, non rappresenta ovviamente l’unico esempio del genere distopico. Quest’ultimo, infatti, nel corso del Novecento, si è sviluppato in una serie di ramificazioni differenti, che hanno sollevato l’attenzione su varie tendenze sociali, politiche o scientifiche. In tale prospettiva, l’originalità delle creazioni della letteratura distopica è andata sempre più aumentando. Provando a offrire una prima – e, ancora, alquanto generale – classificazione del concetto, si può tentare di suddividerlo in tre forme principali, che spesso si intrecciano fra loro: una «distopia politica», una «distopia ambientale» e una «distopia tecnologica».
Nella «distopia politica» non solo possiamo ricondurre i romanzi più celebri, come Noi, Brave New World e 1984, ma anche una serie di opere che affrontano l’incubo totalitario dal punto di vista femminista, in autrici come Katharine Burdekin (Swastika Night, 1937), Margaret Atwood (The Handmaids Tale, 1986), o che si soffermano sul problema della discriminazione razziale, come William E.B. Du Bois (The Comet, 1920), o che – ancora – avvertono tutti i rischi della distruzione totale della Guerra fredda o la crescente schizofrenia delle relazioni sociali, come in molti romanzi di James Ballard e di Philip Dick.
Nella «distopia ambientale» possiamo annoverare molti romanzi che sottolineano il dramma della sovrappopolazione, delle carestie, del riscaldamento globale, delle pandemie, o dell’olocausto nucleare, come in alcune opere di Ursula Le Guin (The Lathe of Heaven, 1971), John Brunner (The Sheep Look Up, 1972), e Cormac McCarthy (The Road, 2006). Sono tutti contributi che possiamo definire post-totalitari, che si sviluppano cioè in una contingenza storica nella quale il pericolo principale non è più quello del controllo panpolitico sulla vita dei cittadini, ma l’azione sconsiderata dell’uomo sulla natura.
Infine, nella «distopia tecnologica», si possono ricondurre tutti quei romanzi in cui la scienza e la tecnologia mettono in pericolo, cercano di dominare o tentano di distruggere l’umanità. Un filone, quest’ultimo, che nato con Wells e Huxley, prosegue con Dick, ed esattamente come la «distopia ambientale» rappresenterà il maggior campo d’azione negli anni a venire.
5. «Non hai prestato molta attenzione»
Nel testo di 2+2=5, mentre l’arpeggio di chitarra di Jonny Greenwood produce una sensazione di angoscia, Thom Yorke canta: «Sei così sognatore / Da volere cambiare il mondo? / Io starò sempre a casa / Dove due più due fa sempre cinque». E, poco dopo, al culmine della tensione, prosegue «È la strada del Diavolo ora / Non c’è via d’uscita / Puoi urlare e puoi gridare / È troppo tardi ormai».
Ed è troppo tardi ormai, proprio perché – come ripete incessantemente il ritornello – «non hai mai prestato molta attenzione». La distopia è proprio un costante richiamo a impedire che le illusioni di un avvenire migliore non si trasformino in un incubo senza via d’uscita. La distopia, in altri termini, è un grido d’aiuto affinché un giorno non dovremo essere costretti a riconoscere di non aver mai prestato molta attenzione.
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