Università Cattolica del Sacro Cuore

di Elena Vagni

JENNY NARCISI
Una vita per lo sport e la ricerca

Jenny Narcisi ha 36 anni, una grande passione per lo sport e una malattia rara diagnosticata all’età di 34 anni. Jenny da adolescente, inizia a mettersi in bici nella sua Calabria raggiungendo i massimi livelli, ora è una nuotatrice paralimpica all’ASD Aquateam Nuoto Cuoio (PI).
Fa parte della delegazione del Coni di Pisa e si prodiga in progetti scolastici per favorire l’inclusione attraverso lo sport. Una volta avuta la diagnosi della sua malattia, Jenny viene in contatto con l'Associazione italiana Macrodattilia e PROS (AIMP) che le permette di non sentirsi sola trovando un centro di riferimento come il Policlinico Gemelli di Roma. Oltre a seguirla costantemente, gli specialisti le consigliano di proseguire nell’attività fisica.

Tre mondiali, due volte sul podio e le olimpiadi, tutto ciò a cui poteva aspirare e vincere è stato raggiunto. “Io credo fermamente che nella vita di uno sportivo, ci sono medaglie che si vincono e altre che si danno. Questo rappresenta il prima e il dopo dell’atleta. Indossare la maglia azzurra è stato per me un onore, ho portato nel cuore bambini, adolescenti e persone che non hanno questa possibilità. Ora ne ho altre da dare!”

Jenny cosa significa per te lo sport per tutti?

Per me significa che tutti devono avere la possibilità di provare lo sport in ogni sua forma, senza distinzione, abbattere ogni tipo di barriera che oggi impedisce ancora a diverse persone di avvicinarsi allo sport e viverne i valori. Mi riallaccio a quello che disse Nelson Mandela “Lo sport ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare.” Credo molto in questa frase sotto diversi punti di vista iniziando dalla scuola. Io penso che si debba partire dal livello scolastico, nel rispetto dell’altro e del diverso soprattutto. Ritengo che nella società, riconoscere nell’altro un valore inviolabile della dignità della persona sia doveroso e lo sport ti insegna questo. Ognuno ha una sua peculiarità e una sua "disabilità", nel senso che ognuno di noi non sa fare qualcosa anche se formalmente non è riconosciuto. Insegnare sin da piccoli ad accettare gli altri e a tollerare le differenze prevenendo i pregiudizi è importante per contribuire a formare una società più umana e sana dove tutti possono riconoscere il reale valore della persona.

Ci sono diversi progetti che segui…

Io ho una malattia rara che ha ripercussioni a livello fisico e motorio che in parte vinco. Ho scelto di specializzarmi nel sostegno scolastico, ma lo sport fa parte della mia vita e non lo lascio. Questo mi ha portato a promuovere nella scuola l’avvicinamento alla pratica motoria soprattutto per alunni con disabilità. Mi faccio portavoce dei progetti del Comitato Italiano Paralimpico (CIP) e dei progetti sociali nel territorio dove vivo. Mi sono mossa nel celebrare anche la Giornata Internazionale della Disabilità del 3 dicembre, per coinvolgere tutte le classi della mia scuola lavorando negli ambiti più diversi; arte, musica, sport… per “omaggiare” la giornata. Alla fine, abbiamo condiviso i lavori e nonostante io ora sia in congedo per il Dottorato che inizierò qui in Università Cattolica, il progetto prosegue ugualmente.

Senti una missione personale in questo?

Si. Per me sarebbe bello aiutare i ragazzi soprattutto in adolescenza ad accettare ciò che hanno. Gestire le conseguenze psicologiche ed emotive di una vita con la malattia è difficile, perché non la mandi via, quando vado a letto io so che c’è. Però grazie allo sport ho capito che non sono solo questo, ma sono fatta da tante altre cose degne di essere vissute. Non puoi decidere tu di nascere con una disabilità, ma puoi decidere che persona essere e quello fa la differenza. Questo per me può passare anche dallo sport. Se io penso al mio primo colpo di pedali a 13 anni quando la vita era difficile e speravo che la malattia andasse via, sono riuscita a superarlo grazie alla biciletta. Mi ha dato la possibilità di scegliere se continuare a piangermi addosso e arrendermi, oppure rimboccarmi le maniche e accettarmi. Spero di potere aiutare anche chi oggi questa scelta non la ha ancora fatta.

Quale legame c’è tra i progetti e il Dottorato che stai iniziando?

Per me lo sport è al centro di ogni aspetto della mia vita, dallo studio, al lavoro al tempo libero. Studio da sempre, una volta che ho chiuso con l’agonismo nel 2018 ho aspettato i bandi per la scuola mentre mi specializzavo nel sostegno didattico con i ragazzi con disabilità. Finito quel percorso, ho fatto un master di posturologia clinica facendo uno studio con nuotatori paralimpici e poi un master di secondo livello sulle malattie rare. Soprattutto questo studio, mi ha permesso di capire quello che è il mondo di queste malattie. Grazie alla ricerca ho avuto la mia diagnosi e ho potuto iniziarmi a curare; la mia clinica è più contenuta di altri con la stessa malattia dimostrando quanto lo sport abbia fatto la differenza. Da qui l’idea di provare un progetto di Dottorato in Scienze dell'esercizio fisico e dello sport di cui Caterina Gozzoli ne è la coordinatrice, per realizzare quello che sento, cioè, mettere a disposizione della ricerca quello che sono, la mia sofferenza e le mie battaglie e farmi portavoce di tanti altri malati rari provando quella cosa che a me ha cambiato la vita, lo sport. Oggi partiamo con uno studio pilota per dimostrare quanto l’attività fisica possa essere raccomandata. Io mi sento privilegiata di poterlo fare in Università Cattolica come centro d’eccellenza. Mi immagino una vita da ricercatrice e il Dottorato non è un punto di arrivo, ma d’inizio. Spero di riuscire a smuovere qualcosa, magari per un centro sportivo ad hoc. A breve uscirà il mio nuovo libro sulle malattie rare "L'orchidea fantasma e il suo amico pettirosso", è un libro scritto per bambini che tratta il tema della rarità attraverso un dialogo tra un nonno e sua nipote. Regalerò delle copie agli ospedali o nelle sale pediatriche che si occupano di queste malattie, bisogna parlarne di più.

 

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