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L’incontro tra culture diverse e la valorizzazione delle differenze sono temi basilari in un mondo sempre più globalizzato. Oltre alle politiche governative per l’integrazione e la lotta alle disuguaglianze, anche lo sport può rappresentare una leva di sviluppo sociale in contesti o territori svantaggiati, e di inclusione per rifugiati politici, minori stranieri non accompagnati o in famiglie ad alta conflittualità, diversamente abili ed ex-detenuti. Ma in che modo il settore pubblico e quello privato possono creare sinergie?
Il ruolo che lo sport può ricoprire a livello sociale è sempre più importante. Per questo, l’Alta scuola di psicologia (Asag) dell’Università Cattolica ha organizzato il meeting internazionale “Sport for social inclusion and development: alliances for private-public action plans”, con il supporto dell’Unesco e il patrocinio dell’Ufficio per lo Sport della Presidenza del Consiglio dei Ministri. «Un forum – spiega Caterina Gozzoli, direttore di Asag e coordinatore scientifico di Cattolicaper lo Sport - che non rappresenta solo l’ideale proseguimento della sesta Conferenza dei ministri e dei direttori generali responsabili per l’educazione fisica e lo sport (Mineps VI) di Kazan, Russia tenutasi lo scorso mese di luglio, ma soprattutto un’occasione per confrontarsi su come il settore pubblico e privato possano creare sinergie per far sì che lo sport sia davvero uno strumento di inclusione sociale».
Si sono alternati atleti e testimonial, docenti ed esperti di livello nazionale e internazionale, che hanno dialogato sull’importanza dello sport come mezzo per favorire l’integrazione, la socializzazione e il rispetto reciproco. Significative le testimonianze di Fiona May, campionessa del mondo e argento olimpico nel salto in lungo, Klaudio Ndoja, cestista e capitano della Virtus Bologna e Isalbet Juarez, velocista specializzato nei 400 metri piani, che hanno raccontato il loro arrivo in Italia, tra difficoltà e speranze, prima di diventare atleti di alto livello perfettamente integrati. Tre storie molto diverse tra loro, ma simili a quelle di tante altre persone.
All’età di 12 anni, Klaudio Ndoja ha attraversato il mar Adriatico alla volta del Salento, per fuggire insieme alla sua famiglia dall’Albania travolta dalla guerra civile: «Quando l’acqua è più sicura della terraferma c’è qualcosa che non va. Il basket è stato una forma di integrazione».
Fiona May è nata nel Regno Unito da genitori giamaicani, ma è diventata cittadina italiana per naturalizzazione nel 1994 dopo il matrimonio. E da quell’anno ha gareggiato con la Nazionale azzurra. May si è soffermata sull’importanza dello sport femminile, e aggiunge: «Nello sport può esserci davvero rispetto solo se gli atleti vengono educati sin da giovani alla cultura del vincere e del perdere».
C’è spazio anche per lo sport non competitivo, come nel progetto “Viaggio Italia” presentato da Luca Paiardi. Da tre anni, insieme all’amico Danilo Ragona, Paiardi percorre l’Italia con la sua sedia a rotelle, per testimoniare che la disabilità non è un ostacolo. Pur essendo paraplegici, infatti, i due sono maestri nel volare con il deltaplano, nell’andare in barca a vela, in canoa e nel guidare il quad.
Lo sport non è comunque solo riscatto o inclusione sociale, ma anche cultura, come emerso già durante il Forum Nazionale tenutosi nello scorso mese di ottobre sempre in Università Cattolica. Lo ha confermato Marco Arpino, campione del mondo di fioretto, ora direttore dei Progetti Speciali del Coni: «È fondamentale non sottovalutare il valore culturale delle discipline sportive, intese come un ambiente dove poter far crescere l’essere umano in tutte le sue caratteristiche». Come ha sottolineato anche Milena Bertolini, c.t. della Nazionale femminile di calcio: «Lo sport è inclusione sociale a 360 gradi».
Al Forum internazionale hanno partecipato esponenti di università, ambasciate, governi, ong e organizzazioni sportive da più di 50 paesi del mondo tra cui Giappone, Korea, Nepal Indonesia, Thailandia, Congo, Burundi, Sud Africa, Brasile, Cuba, Guatemala, Canada e Stati Uniti. Con l’obiettivo di individuare indicatori comuni per valutare i programmi e le politiche che utilizzano lo sport come veicolo di inclusione sociale.
E se la pratica sportiva può essere una macchina che favorisce l’inclusione sociale, il calcio ne è il motore principale. Come nel caso di Inter Campus, i cui programmi sulle fasce fragili sono stati presentati da Annalisa Novembre, e di Fondazione Milan, la public charity che dal 2003 agisce in Italia e all’estero in favore di ragazzi con problematiche particolari e a rischio dispersione scolastica. Filippo Galli, responsabile del settore giovanile del Milan, ha spiegato come la collaborazione tra il settore giovanile e la onlus porti vantaggi ad entrambe le realtà rossonere. In fondo, il messaggio è chiaro: «Ai ragazzi bisogna insegnare che far segnare un compagno di squadra è molto più bello che dribblare l’avversario».
Qui altre informazioni e interviste sull'evento.
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