Rimasto in ombra durante le fasi più drammatiche della pandemia, il tema migrazioni sta riguadagnando uno spazio rilevante nell’agenda mediatica e politica. A “fare il punto” sulla questione è come ogni anno il Rapporto ISMU sulle migrazioni, che ospita contributi di numerosi docenti dell' Università Cattolica, giunto nel 2021 alla sua XXVII edizione.
A livello internazionale, è stata soprattutto la crisi afghana - col suo inevitabile strascico di esodi forzati - a catalizzare l’attenzione, riportando alla ribalta le falle dei sistemi di protezione, i drammi che si consumano lungo le rotte dei migranti forzati, l’inadeguatezza delle risposte politiche che, a loro volta, rimandano a una persistente incapacità della comunità internazionale nel costruire soluzioni condivise e solidali.
Focalizzandoci sull’Italia, anche negli ultimi mesi il paese ha continuato a essere particolarmente esposto al fenomeno degli arrivi via mare: nonostante le forti limitazioni alla mobilità imposte dalla pandemia, gli “sbarchi” nel 2020 (oltre 34mila) sono stati circa il triplo di quelli del 2019; nel 2021 sono ulteriormente raddoppiati, superando i 67mila. Ad essi vanno poi aggiunti gli arrivi via terra (oltre 6.700 quelli registrati nel 2021) e attraverso i corridoi umanitari (in particolare grazie ai ponti aerei con l’Afganistan).
Tuttavia, su un piano statistico, il numero di “immigrati” presenti in Italia sta addirittura diminuendo, per effetto delle naturalizzazioni, non più compensate dal saldo migratorio. Al 1° gennaio 2020 (ultimi dati disponibili) vivevano in Italia oltre 1 milione e 500mila “nuovi italiani” che, nati stranieri, hanno successivamente acquisito la nostra cittadinanza. Ne consegue che il numero di soggiornanti con un background migratorio è ben più elevato dei 5.756.000 stranieri stimati al 1° gennaio 2021 (che includono circa 520mila soggiornanti irregolari).
In ogni caso, ancor più che sulla dimensione meramente quantitativa dell’immigrazione, vale la pena interrogarsi sulla “qualità” dei processi di integrazione, tanto più dopo lo stress test rappresentato dalla pandemia. Gli approfondimenti contenuti nel Rapporto scandagliano le conseguenze della crisi sanitaria sul quadro occupazionale degli immigrati (che registra un preoccupante aumento della disoccupazione, ma soprattutto del tasso di inattività degli stranieri), sulle carriere scolastiche dei loro figli (che più di tutti hanno sofferto dei rischi di dispersione e difficoltà di apprendimento collegati alla DAD), sui rischi di morbosità e mortalità (aggravati dalle condizioni di vita e di lavoro di molti immigrati).
Il precario equilibrio sul quale si regge il modello italiano di integrazione è bene sintetizzato dal dato sulla povertà, che investe addirittura il 29,3% degli stranieri (rispetto al 7,5% degli italiani) e, quel che più colpisce, il 25% degli stranieri occupati, circostanza che fa degli immigrati i principali “protagonisti” del triste fenomeno dei working poor, più volte additato dal Santo Padre come “pietra d’inciampo” degli attuali regimi di accumulazione. Riverberandosi sui destini delle seconde generazioni, la fragilità economica delle famiglie immigrate non è certo estranea alla elevatissima incidenza di giovani stranieri tra i cosiddetti early school leavers: 32,1% contro l’11% degli italiani.
Il tema della (in)sostenibilità dei processi migratori e di integrazione merita dunque di essere inserito, a pieno titolo, nell’agenda “post-pandemica”. Non solo per ragioni di ordine etico e di giustizia sociale, ma soprattutto perché - come traspare dalle analisi contenute nel Rapporto ISMU - è sempre più evidente il nesso che lega la governance delle migrazioni al futuro dell’Italia e dell’Europa: in gioco vi sono la competitività dell’economia, la tenuta della coesione sociale, la qualità della democrazia, i destini del processo di integrazione europea, il posizionamento negli scenari geo-politici globali.
Fonte: Cattolica News